SPECIALE: NEFANDEZZE NORDICHE - volti dimenticati del Metal Nero (Parte 1)
"EST DEL SOLE, OVEST DELLA LUNA"
Fine degli anni '80: l'eccessiva progettazione-in-serie di bande e dischi hard dai meri fini consumistici stava portando ad una ipersaturazione che avrebbe potuto rivelarsi letale per la sopravvivenza del genere stesso - la cui popolarità era già in fase calante. Bisognava arginare un simile output!
La retroguardia Germanycentrica (trattata di recente su queste pagine) e gli acrobati del techno-thrash, pur contribuendo alla permanenza della Musica Dura sui cataloghi, non erano sufficienti: serviva qualcosa, o qualcuno, che rompesse davvero le regole. Qualcuno che non puntasse all'evoluzione, né ad un pur costante ma flebile afflato vitale, ma che eseguisse una brutale autopsia sulle spoglie dell' heavy e ne estirpasse le viscere, l'essenza primitiva, provocatoria ed irriverente. Era giunta l'ora di distruggere per ricostruire.
A dire il vero, le prime scelleratezze di Mayhem e Darkthrone si risolsero in breve tempo in qualcosa di profondamente distaccato dai dettami - anche i più basilari - della tradizione metallica: se la crociata si ispirò inizialmente agli schemi degenerati dei vecchi thrashers europei, di Celtic Frost, Bathory e Venom, si raggiunse presto la piena autarchia ed autoreferenzialità, impossessandosi di una mostruosa combinazione tra la furia cieca del punk e le gelide dilatazioni ambient procreate dai "conquistatori del cosmo", nei seventies.
Gli infami blocchi di partenza del BLACK METAL, come da allora codificato, sono quindi da posizionare all'indomani di "A blaze in the Northern Sky" (1992), cataclisma con cui Darkthrone innalza un vessillo dissacratorio, un maglio d'acciaio incrostato di orrende ruggini che affonda con violenza inaudita nel suolo, asfissiato dalle nevi eterne.
L'assoluta assenza di compromessi è il diktat su cui Euronymous, leader dei Mayhem, fonda la sua setta nei bassifondi di Oslo, quell' Inner Circle foriero di terrore finché morte - non solo in senso figurato - non lo distolga dalla sua macabra "missione".
Dal rudimentale graffite nella cantina di Helvete (quartier generale del "Cerchio") all'esplosione delle fantasie omicide dei nuovi oligarchi, è un attimo. Il fermento, stavolta, non coinvolge goliardici provocateurs o scapestrati drinkers tedeschi: la rivolta è "a sud del paradiso"!
TRUE NORWEGIAN BLACK METAL!
Decretare l'esclusività scandinava del Black Metal è un assoluto forse sindacabile, ma non così lontano dalla verità. Basterebbe tenere presente l'imprescindibile influsso geoclimatico che foraggia, per definizione, la follia delle milizie nordiche!
Come accade all'insorgere delle correnti artistiche più determinanti, il brivido della novità comporta che qualunque adepto ne interpreti le suggestioni a modo proprio: non è stato forse così per il Rock Duro U.K. con Black Sabbath, Deep Purple e Uriah Heep? L'asse Oslo-Bergen, analogamente, produce molteplici strategie primigenie attraverso le pulsioni mitologiche di Enslaved, la trance mistica degli Emperor e le poderose slavine sonore degli Immortal; le declinazioni folk autoctone arrivano puntuali con le prime opere di Satyricon e dei magici Ulver, mentre Burzum, miserabile poeta del disincanto e terrorista di tutte le forme, progetta nell'ombra il suo micidiale attentato alla leadership.
Se mai fosse necessario ribadire come nel Rock 'n Roll la preparazione accademica sia una componente tutto sommato accessoria (a vantaggio dell'evocazione di immagini ed atmosfere), il Black Metal dei primi anni '90 lo fa in maniera assolutamente perentoria. O, in alternativa, commissiona ad elementi tecnicamente dotati come Enslaved ben altro repertorio di sortilegi.
Il sabba nero dei nuovi "sacerdoti" è quindi amplificato da un make-up dal ghigno cadaverico (per la verità già utilizzato, negli '80, da Celtic Frost), da un'impronta chitarristica assordante, che trancia le carni come un pugnale sacrificale, oltre all'ovvia matrice esoterica.
Storicamente, ogni "movimento" si presenta stratificato fin dall'inizio - e il Black Metal non fa eccezione in questo senso. Legioni di blacksters capaci e del tutto puntuali sulla tabella di marcia persero - per un motivo o per l'altro - l'appuntamento con la Storia, eclissati dalla magnitudo di Darkthrone, Mayhem e succitata élite.
Potremmo immaginare una sliding door in cui gli allucinanti Manes, per esempio, riescono a distribuire cospicuamente il loro materiale allo scoccare dell' "inquisizione scandinava" - e non nel 1999, quando un disco come "Under ein blodraud maane" poteva, al limite, appagare le perversioni di qualche necro-nostalgico.
Questo estenuante preambolo, poiché per la prima volta tale argomento viene trattato sulle nostre (ora maledette!) pagine. Sarebbe stato problematico, inoltre, parlare di illustri-sconosciuti come Manes e Helheim senza tracciare in sintesi il profilo dei Padrini Oscuri e accennare alla genesi dell' Inner Circle, mater tenebrarum dell'ultima grande rivoluzione culturale.
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HELHEIM - JORMUNDGAND
(Solstitium Records, 1995)
Alunni in tutto e per tutto degli Enslaved, «Università del Metal-Nero», Helheim approcciano la rilettura del mito vichingo con una brutalità che lascia esterrefatti. La partenza di "Jormundgand" è fuori controllo, le chitarre affilate come le zanne della belva polare, le vocals un latrato che ridicolizza qualunque delirante predatore d'oltretomba.
Al netto di sporadici cenni melodici, l'orda famelica incanala nella sua opera-prima tutta la violenza del remo che percuote le acque in tumulto; ma, quando le drums "battono i quattro" con la freddezza di un killer, ed Helheim si lancia nel riff sub-zero di "Vigrids vard", l'affronto ai nerboruti tiranni di "Vikingr veldi" è totale!
L'ennesima cantilena pregna di tradizionalismo & folklore squarcia il debutto di Helheim in due porzioni nette, preludendo ad una parte-seconda che corrobora la maestosità dei Bathory con imponenti allusioni synth-etiche.
Così, nell'orgiastico finale "per organo e grida", si compie sotto la Luna Crescente il battesimo infernale degli Helheim. Epigoni di lusso!
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MANES - UNDER EIN BLODRAUD MAANE
(Hammerheart, 1999)
Ho ragione di credere che nessuno osi ormai denunciare i "crimini tastieristici" nel Black Metal: gli Emperor stessi ne perorarono la causa, per dare sfogo alle loro trascendentali visioni di eclissi notturne! E vale la pena ripetersi, sottolineando che "Under ein blodraud maane" ricompone una liturgia perpetrata da Manes in tempi non sospetti, ricalibrandone il look con una produzione meno "barbara" ma tutt'altro che edulcorata.
E' proprio quando si crede di avere a che fare con un linguaggio citazionista (il passaggio iniziale di "Maanes natt" allude al manifesto Mayhem-ico "Freezing Moon"), gli algidi synth dei Manes innescano evanescenti melodie, che si disperdono come fiocchi di neve languida nella desolazione dello spazio siderale. "Uten liv ligger landen øde", "De mørke makters dyp" e la title-track sonorizzano alla perfezione la conturbante coreografia di copertina (che risorge con la ristampa compact del 2018!) e suggellano la saison en enfer del sottovalutato duo.
In appendice, è consigliabile riflettere sul fatto che Manes, come molti altri true-norwegians, avvertiranno presto i limiti di un genere refrattario alle contaminazioni, e muoveranno il loro interesse verso situazioni "altre" - comunque intrise di calcolata oscurità.
Massimo