RICORDI: i "Bug del Millennio" che forse vi siete persi (PRIMA PARTE)
Come avete sicuramente intuito, non stiamo parlando di virali assalti informatici, né di insetti volanti di biblica memoria!
Hammerblow nacque sulle macerie di un decennio appena concluso, in un clima di resistenza in cui l'Heavy Metal sopravviveva tenacemente, ma in edizione ridimensionata. Le forze motrici latitavano e, al contrario di oggi, non era così semplice raggiungere l'underground, né avvalersi delle perfezionate strategie imitative che in questi ultimi mesi stanno consentendo l'insorgere di apprezzabile materiale "modern vintage".
La storica redazione di Hammerblow può vantare un operato davvero esclusivo, nei giorni in cui il cordone ombelicale che legava l'Hard n'Heavy al suono degli anni '80 si allentava inesorabilmente. Oltre ad un discorso di preservazione culturale, alimentato dalle immancabili retrospettive, ognuno di noi si muoveva (anche) autonomamente alla ricerca di novità, sconosciute o meno, che potessero fornire le cronache in-tempo-reale di un Heavy Metal precario ma sempre presente.
E' chiaro che questa miniserie di editoriali non si prefigge l'obiettivo di ridiscutere i singoli di Dio, Iron Maiden, Helloween ed altri pilastri metallici comunque operativi in quegli anni - e delle cui gesta potete e potevate leggere in ognidove.
L'archivio di Hammerblow 2002-2005 si è rivelato scrigno di impagabili ricordi, ma anche di hit che, nonostante i nostri encomi, i più hanno sorvolato - oppure dimenticato in tempi assai brevi.
Se una parvenza di moto perpetuo continuava nel Vecchio Continente, con i sopravvissuti del tumulto germanico anni '90, il metallo americano faticava a replicare persino i fasti del passato prossimo: ma, credetemi, si trattava solo di apparenza. Il come-back di Lizzy Borden, con quel pugnale acuminato di "There will be blood tonight", deve avere senz'altro fatto suonare la sveglia!
Dispiace non aver potuto, a suo tempo, dare spazio su queste pagine a Zandelle, newyorkesi alla terza uscita, nel 2002, con "Twilight of humanity": con la fanzine ancora in fase di rodaggio, mi feci sfuggire la possibilità di esaltare in-diretta un brano come "The champion", tributo alla divisione dispersa del metallo americano sword & sorcery (Warlord, Medieval Steel ecc).
Zandelle promettevano; eccome se promettevano! Il loro "Twilight of humanity" era dichiaratamente rancio per l'élite devota ad un certo tipo di sound, troppo lontano dal revisionismo neomelodico di Stratovarius ed opportuni seguaci.
Perlustrare i dungeons americani portava spesso a scoperte sorprendenti: George Call é tra coloro che non hanno mai mollato, un vero die-hard, ed il suo colpo di coda allo scoccare del Nuovo Millennio ne è prova insindacabile. "Avenger" (2000), ennesimo album dei veterani Aska (genuflessi da sempre all'altare di Iron Maiden e Judas Priest) mi fu caldamente suggerito da un amico, infatuato dalle collaudate fortificazioni sonore di "Crown of thorns" e "Valkyries". Sentir risuonare tali cozzi metallici in quei giorni di magra era tutt'altro che scontato e, al netto di una produzione avara di effetti speciali, le pastose e vivide chitarre di George Call facevano letteralmente sognare. Riscopriteli!
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Ogni parto discografico di Mike Scalzi e dei suoi Slough Feg era un evento che destava curiosità, presso i fedelissimi dell'acciaio ancestrale made in U.S.A.! Un perentorio uno-due fu piazzato dagli Slough Feg, nel giro di soli due anni: grazie ad un curioso feeling con le compagnie italiane, Scalzi si accasò -nel 2005- all'allora giovane realtà capitolina Cruz Del Sur, sposalizio che lo riallacciò alla tradizione sonora interrotta con l'ultimo album realizzato su Dragonheart.
Se "Traveller" (2003) proponeva a ben vedere un taglio smaccatamente Heavy, il successivo "Atavism" riposizionò Slough Feg sulla lunghezza d'onda del gioiello "Twilight of the idols" (1999), riesumando le vigorose radici folk e l'attitudine intellettualoide di quella lunatica ed imprevedibile tribù.
"Ti ucciderò / tu morirai" è il motto troglodita che apre il rituale cavernicolo degli Slough Feg, una delle realtà più interessanti del periodo: colpi di clava e stratagemmi imperdibili, per ogni maideniano nostalgico di "Killers"!
Rimarcando la parentela con l'icona Ronnie James -piuttosto che affidarsi alla fama di cult band dei "suoi" The Rods- Feinsten riuscì ad ottenere un'esposizione più che accettabile, all'alba del Duemila. Per poco, il maldistribuito "One night in the jungle" (2000) non sollevò i seguaci di Deep Purple dalla lunga "astinenza blackmoriana"! Immerso al 100% nella mitologia e nella dottrina chitarristica dei seventies, Feinstein non apparve altrettanto efficace come vocalista, tanto da dover revisionare la sua confezione e riproporsi, dopo tre anni, a seguito di un contratto con Steamhammer.
Per la verità, "Third wish" suona simile ad un'esercitazione pretestuosa, pianificata con lo scopo di esibire al quadrato le doti di John West (la cui performance canora toglie il fiato...a tutti eccetto lui!!!) più che per riabilitare l'axeman "cugino di Ronnie James Dio".
FINE PRIMA PARTE