RISTAMPE, Dagger & Solomon Kane

11.12.2020

DAGGER - Deep Cuts 89-99 (Heaven and Hell Records, 2019)

SOLOMON KANE - Die by the sword 86-91 (ProgAor Records, 2020)

Le ragioni che si celano dietro alle riedizioni musicali sono molteplici: se la priorità è ovviare a prime tirature scarsamente reperibili, altrettanto spesso le ristampe presentano decisi interventi sui master, incidendo giocoforza -buoni propositi o meno- sulla restituzione del suono originario. Un terzo caso, meno eclatante, riguarda la pubblicazione postuma di materiale che, al momento dell'incisione, non riuscì a conseguire alcuna immissione sul mercato.
Detto destino, così come la provenienza, accomuna Dagger e Solomon Kane, realtà dai background assai differenti ma giunte, entrambe, al prodotto ufficiale soltanto in questi ultimi mesi.
La distanza siderale (oltre 30 anni!) parla chiaro: alla fine degli anni '80, il Metal americano
era un settore così nutrito da concedere un successo davvero moderato a formazioni di indiscutibile valore come RazormaidFifth Angel. C'è da chiedersi, pertanto, con quale criterio Dagger avrebbe dovuto, nel 1989, ottenere la propria porzione di celebrità all'interno di una scena il cui punto di saturazione era già stato ampiamente raggiunto.
Se tra i contemporanei candidati ad un'edizione, poi, figura il debutto di Dream Theater, i sogni di una band (comunque di qualità) devono lasciare spazio al disincanto.

il demo dei Dagger, 1989
il demo dei Dagger, 1989

A nessun risultato rilevante portarono, infatti, le pur pertinenti e ben confezionate emulazioni di Dokken ("Enchanting me", "Take me") e Crimson Glory (la ballata "Lasting love"). Dagger incappò purtroppo in un caso di sottile anacronismo: sarebbero stati sufficienti pochi anni di anticipo affinché cavalli di razza come "Call on the brave" (sulle ali del...Quinto Angelo), "No one to blame" e l'energica "Fight" destassero l'interesse di sostenitori e discografici.
La seconda porzione del CD, dedicata al periodo in cui la band si riformò con il nome High Bridge -era la fine degli anni '90-, pur mostrando un cambio di rotta verso un sound alternativo, dalle vaghe reminiscenze hendrixiane, paga nuovamente al cospetto di materiale coevo troppo superiore (i Bon Jovi di "These Days", per esempio).

Folgorato dalla pubblicazione emessa da ProgAor Records, invece, confesso di aver realizzato solo a posteriori l'identità barricata dietro all'inedito Solomon Kane. Attivo dalla fine degli anni '60, il talentuoso Mike Coates vanta un curriculum che ha dell'incredibile: dai pionieristici White Wing agli Asia (omonimi della nota band inglese), il percorso di questo straordinario musicista implica una ricerca sonora che -quasi alla maniera dei Kansas!- fonde l'estro tipico del prog con l'eleganza di un rock duromaestoso, aprendo la strada ad uno dei più interessanti filoni della cronologia hard.

L'esperimento in studio a nome Solomon Kane ripropone i medesimi intenti, impreziositi dalla prova vocale di Deb Marquart e da un livello compositivo elevatissimo, tanto che potremmo tranquillamente etichettare "Die by the sword" come ulteriore album dei menzionati Asia.

L'offerta si muove tra radici blackmoriane e citazioni più o meno esplicite degli Uriah Heep, sviluppate con cognizione pressoché perfetta del fraseggio rock'n'roll (ascoltate le chitarre di "Don't tell me"!).
"Die by the sword" è un carrousel di fascinose immagini, peraltro ritratte con una sensibilità non comune, dalle visioni ancestrali di "The assassin" alla poesia gitana che sgorga dallo standard armonico della splendida "Gipsy queen". Il proprio bagaglio formativo spinge Solomon Kane addirittura verso architetture d'estrazione classica, di cui la variazione sul tema lisztiano "Hungarian rhapsody"
 è senz'altro probante.

L'impiego della batteria elettronica produce invero una certa aridità, soprattutto in alcuni passaggi particolarmente evocativi, ma -credetemi- è l'unica obiezione sollevabile alla luce di un vero classico dimenticato, assolutamente da non perdere.

Massimo

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