RELICS, Uriah Heep: una retrospettiva

25.12.2020

URIAH HEEP - Salisbury (Vertigo, 1971)

...sapevo che sarebbe arrivato, anche per loro, il momento di essere celebrati su queste pagine. Passare in rassegna Uriah Heep, in conclusione di un 2020 in cui la Signora in nero ha avuto gioco particolarmente facile, è una mossa che si presta a varie interpretazioni: sottile umorismo macabre? Omaggio ai ben due componenti storici (il batterista Lee Kerslake e il co-fondatore Ken Hensley), entrambi scomparsi negli ultimi mesi?
La realtà è che, dalla riapertura di Hammerblow, più di un lettore mi ha contattato chiedendomi suggerimenti circa gli Uriah Heep e la loro immane discografia.
Cabalistica coincidenza che ci offre l'opportunità su un piatto d'argento, quindi.

Trattandosi di uno di quei nomi che non necessitano didascalie introduttive, mi limiterò a ricordare che la loro produzione è tanto sterminata quanto multiforme. Da un'analisi di massima, che suddivida le "ere" della band in base alla rocambolesca staffetta per gli oneri vocali, emergono almeno TRE profili diversi: l'incarnazione originale -con David Byron alla voce-, però, è mitologia del Rock, con buona pace di una successiva fase transitoria e della lodevole ripresa (a partire dal singolo "Too scared to run") che ancora oggi garantisce sporadici sussulti.

"Salisbury", regular cover 1971
"Salisbury", regular cover 1971

"Salisbury" è molto più che un semplice totem; ed è mortificante limitarsi a considerarlo il momento in cui Uriah Heep consolida la propria alchimia, dato lo spessore dell'opera.
E' chiaro fin dal velenoso riff e dalle scelte vocali di "Bird of prey" che è in atto un'emancipazione senza precedenti, un distanziamento dallo schema hard rock verso forme sconosciute, intrise di nuova magia ed ibridate con i destabilizzanti diagrammi del prog.

La figura minimale (due accordi!) dell'iconica "Lady in black" apre la visuale su uno scenario di profonda desolazione, con Hensley che -per l'occasione- si sostituisce a David Byron dietro al microfono. Scaturiscono dalla mente del geniale tastierista anche "High priestess" e la fiabesca atmosfera in chiave minore di "The park", quasi un trait d'union con i più onirici episodi di King Crimson.

l'edizione americana di "Salisbury"
l'edizione americana di "Salisbury"

Provate ora questo curioso esercizio: ruotate il mappamondo finché il vostro sguardo non si focalizzerà sui confini svedesi. Poi fate partire "Time to live". Con la dovuta concentrazione, non tarderete a realizzare quale fenomeno discografico del XX Secolo abbia un impagabile debito di ispirazione con QUESTI Uriah Heep.

In ultima battuta, il quintetto firma il proprio manifesto sonoro con la titanica title-track: un tour de force di oltre sedici minuti, un cantiere di immaginazione e lirismo che riscrive le formule della suite e diventa, anzi, modello di visioni psichedeliche per il futuro imminente ("The magician's birthday"...). 

I cinquant'anni di carriera degli Uriah Heep lasciano un'eredità di valore inestimabile, immortalata su una serie di capolavori da conoscere ed assorbire fino all'ultima nota. Ma "Salisbury" oltrepassa i meriti autoreferenziali: rappresenta, alla stregua di "Black Sabbath", il primo vero soffio vitale dell'heavy metal music.

Massimo


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