HO RIASCOLTATO: Gary Moore - Corridors of power

10.06.2021

GARY MOORE - Corridors of power (Virgin, 1982)

Nel caso vogliate mettermi in seria difficoltà, chiedetemi pure quale tra gli album che Gary Moore pubblicò dal 1982 all'87 sia il mio preferito. Probabilmente, la faticosa scelta non ricadrebbe su "Corridors of power", ma è innegabile che con questo arsenale di riff e pentatoniche saettanti il ragazzo di Belfast abbia dato una svolta decisiva al suo percorso, raggiungendo quel centro gravitazionale che genera equilibrio perfetto tra hard & heavy. "Corridors of power" ha le caratteristiche del ruspante british sound anni '70, gonfiato ed irrobustito dai fulmini solistici di Moore, dalla spessa armatura sonora forgiata da Jeff Glixman (già produttore degli immensi Kansas) e dal drumming bestiale di Ian Paice in totale stato di grazia.

Dovremmo seriamente tenere in considerazione un approfondimento sul rock irlandese, anche se -a ben vedere- non sarebbero possibili troppe escursioni oltre le fantasie di Phil Lynott, di Rory Gallagher e di Gary Moore - maestro di chitarrismo in-your-face, erede della carica istintiva di Ritchie Blackmore, della raffinatezza  degli ex compagni di squadra Thin Lizzy e del dizionario blues del Johnny Winter più nevrotico.

G.Moore sul mitico n.1 di Flash, 1987. Collezione privata
G.Moore sul mitico n.1 di Flash, 1987. Collezione privata

Esplode, col suo riff portante, il petardo "Don't take me for a loser" ed è subito metal-marasma, mentre "Wishing well" dei Free inaugura una felice miniserie di rivisitazioni (distribuite su tre album) che omaggiano i padri ispiratori del Gary-Moore-sound!

I codici dei Thin Lizzy e delle loro atmosfere soffuse sono palesi nella ballad sofisticata "Falling in love with you", vincente incontro della pronuncia chitarristica di Moore con le delicate forme della quasi-omonima "Still in love with you" e di "Don't believe a word".

ancora su Flash #1, nel 1987
ancora su Flash #1, nel 1987

E' un'isterica raffica di licks supersonici che prelude agli accenti bellicosi di "End of the world": l'introduzione è uno squarcio virtuosistico (peraltro già sperimentato con i G-Force!) che allude a "Eruption" dei Van Halen ed anticipa il caso "Hot on your heels" dell'uragano Malmsteen, ma con un controllo melodico francamente superiore.

Gary Moore si fa carico anche degli impegni vocali, nell'ennesima scelta indovinata della sua carriera solo (fa eccezione il contributo di Charlie Huhn su "Dirty fingers"). A tratti, il rocker dal sangue di smeraldo appare come un Glenn Hughes meno erudito e portentoso, ma con un'anima hard-blues che trionfa nel cadenzato a'la Deep Purple di "Cold hearted".
La serie di dream-albums, tra cui vi invito a considerare anche il travolgente live "We want Moore", si concluderà con inedite visioni celtiche al ritmo di batteria elettronica ("Wild frontier").

Dopo il sufficiente rocker "After the war" del 1988, invece, Gary Moore si reinventò come uomo di blues senza dubbio credibile, ma la sua zona di comfort era naturalmente altrove...


in memoria di R.W. Gary Moore, 1952-2011

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