HO RIASCOLTATO: BLACK JESTER - Diary of a blind angel
BLACK JESTER - Diary of a blind angel
(Music is intelligence, 1993)
Leggi il nome della band, vedi pianeti fluttuare sul mare calmo, cavalli alati ed assorti Pierrot che meditano su immaginifiche scogliere d'ambra, ed automaticamente pensi all'ennesima formazione suggestionata dalla malinconica figura del giullare.
Dal make-up di Peter Gabriel (epoca "Selling England by the pound") in poi, il tormentato buffone di corte è parte integrante dell'iconografia del rock "colto": abbiamo visto il jester benedire l'esordio dei Marillion con lacrime d'argento, raccontare fiabe davanti al focolare con la suggestiva voce di Bob Catley ("On a storyteller's night"), concedersi un'apparizione alle nostre latitudini grazie agli Adramelch, con la loro "Dreams of a jester". E chissà quanti altri episodi che vedono protagonista la maschera par exellence sto dimenticando...
In piena esplosione progressive-metal guidata (anzi, monopolizzata) dai Dream Theater, Black Jester debuttano francamente in sordina, tanto che tutt'ora ho notevoli difficoltà a ricordare significativi brani di giornalismo a loro dedicati; almeno fino al 1997, quando il terzo album "The divine comedy" conquista la colonna del disco del mese su una nota rivista italiana.
Altrettanto onestamente, non mi pare che i motivi per accostare "Diary of a blind angel" alla pur accattivante etichetta prog siano molti. Parlerei piuttosto di art rock che lascia talvolta spazio a qualche frangente ritmico un po' più ardito. Black Jester sono senz'altro un'orchestra di cortigiani strumentalmente eruditi, ma le strutture di massima, quanto le armonie, appaiono ligie al formulario tradizionale dell'Heavy Metal, influenzate semmai dal barone del neoclassico Yngwie Malmsteen.
Tant'è: il chitarrista Paolo Viani cita a più riprese idee melodiche dal frasario malmsteeniano ("You don't remember..." e "Black star" le più evidenti), che nel 1993 sono già aforismi, entrati di diritto nel repertorio di ogni aspirante virtuoso.
Chiudiamo la porzione meno lusinghiera di questa retrospettiva facendo notare che Black Jester, all'epoca, accusavano i sintomi comuni a quasi tutte le Metal-bands provenienti dall'Europa neolatina: produzione discutibile, una pronuncia della fonetica inglese che oggi verrebbe regolarmente derisa dalle masse social-dipendenti. Le tematiche "esistenzialiste", sommo cliché settantiano, nel caso dei Black Jester sanno di pretenzioso e finiscono col far sorridere anziché ammaliare: vanità di vanità, direbbe qualcuno.
Le ragioni che spingono alla ricerca di questo (ormai raro) compact e alla riscoperta dei suoi contenuti, però, annullano in qualche modo quanto criticato finora. Se Viani si dimostra legnoso nella riproposizione di "signature licks" tecnicamente esigenti, è invece disinvolto e sorprendentemente creativo nella costruzione di fitti arpeggi, annunciatori di atmosfere fiabesche ed immersi nella magia del tipico effetto "etereo" dei primi anni '90 (ebbene sì, sono un estimatore dei chorus digitali di quel periodo...). E' su questo espediente sonoro che Black Jester innalza composizioni valorose e multicolori come "The tower and the minstrel", "Mother Moon" e la sontuosa title-track , incastonata di spettacolari riff elettrici e variazioni armoniche.
I trevigiani collocano il loro fiore all'occhiello circa a metà dell'opera-prima: la fantasmagorica suite "Time theater / King of eternity" si apre con un tappeto di sintetizzatori ed un recitato che ricordano le stravaganze cosmiche di Uli Jon Roth con gli Electric Sun, per defluire nel romanticismo di un grande inciso pianistico. La passerella d'onore è quindi per le tastiere di Nickl Angel (assente già dall'album successivo!) e per l'abile sezione ritmica, decisivi nel ricucire l'elaborato dei Black Jester ed elevarlo ad un livello assolutamente competitivo.
Alessandro d'Este, venuto a mancare in tempi assai recenti, offre un timbro vocale che inizialmente lascia perplessi, ma che assume sempre più senso e profondità, ascolto dopo ascolto, diventando peculiare del sound di Black Jester e posizionandosi - anzi - nel sottoinsieme dei Peter Gabriel e dei Fish. Gente dotata di rara delicatezza e sensibilità interpretativa, non vanitosi gorgheggiatori di mezza tacca!
Tra le prime heavy-metal-band italiane in grado di scatenare l'interesse di etichette estere, sui Black Jester calerà il sipario dopo appena tre album e qualche onorificenza guadagnata con "The divine comedy". Praticamente, sul più bello...
Massimo