GUITAR BATTLE 2023: i nuovi album di Alcatrazz e Vandenberg!

08.09.2023

ALCATRAZZ
"TAKE NO PRISONERS"
(Silver Lining Music, 2023) 

Perdonate la facile ironia ma, ormai da diversi anni, ogni qualvolta leggo riguardo una nuova mossa discografica targata Alcatrazz, la prima cosa a cui penso è un manipolo di evasi…e non dall'infame quanto leggendario carcere di massima sicurezza. La croce/delizia che Alcatrazz sono costretti a portare sulle proprie spalle in aeternum si chiama "No parole from Rock 'n' Roll", uno degli esordi più esplosivi degli anni '80, un big-bang che frantumò l'immaginario del rock virtuosistico imponendo nuovi, temibili standard con le indemoniate scorribande di un ancora sconosciuto Yngwie J. Malmsteen! Paganini incontrava la chitarra hard rock in un cozzo estremo, tanto da archiviare nello scaffale del modernariato persino le gesta mirabolanti di Ritchie Blackmore e di Uli Jon Roth.
Non è tutto: al centro del progetto-Alcatrazz, troneggiava l'improbabile figura incravattata del cantante Graham Bonnet, illustre per i trascorsi nei Rainbow ("Down to earth", 1979) e per il contributo decisivo su "Assault attack", indubbio capolavoro di Michael Schenker.
A quanto appena riassunto aggiungete che, dopo il debutto discografico e relativo tour, il decollo di Malmsteen solista comportò l'immediata sostituzione del prodigio svedese con…Steve Vai!

Tutto questo ripasso per motivare le (mie) perplessità circa i tentativi da parte del trio originario Bonnet - Waldo - Shea di resuscitare Alcatrazz arruolando musicisti senz'altro abili e dal curriculum importante (Joe Stump, più che dignitoso replicante di Yngwie), ma girando sempre e comunque intorno al riff schenkeriano di "Assault attack". Improvvisamente, l'imprevedibile Bonnet abbandona il timone lasciando ogni incombenza ai superstiti Jimmy Waldo e Gary Shea, ma il risultato non cambia: al microfono (ri)compare il veterano Doogie White (Malmsteen, Rainbow ecc.) ma la filastrocca si ripete, con il solito assalto-attacco ormai prevedibile e inefficace.

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Chiariamo: Alcatrazz, nonostante la presenza ostinata dei due membri fondatori, con "Take no prisoners" possono essere considerati una band definitivamente rifondata oppure, se preferite, una nuova band. Sono molteplici i punti di interesse riscontrabili nel nuovo album, a partire da un provvidenziale distanziamento dalla formula imitativa/approssimativa del proprio passato pur restando fedeli all'hard rock di marca tradizionale, fino ad una evidente presa di coscienza di Doogie White, che trascina la ciurma e plasma a sua immagine gli Alcatrazz, corroborandone il sound con nuova coesione.

"Little viper", con il suo riff energico, disorienta piacevolmente, e mette in mostra una mise molto più simile a quella dei Saxon d'epoca "Killing ground" che agli Alcatrazz stessi. Certo, ascoltare Doogie White che gioca all'imitazione (a tratti impressionante!) di Biff Byford potrebbe far sorridere, ma è così credibile che risulta assai difficile non stare al suo gioco. Perseverare è diabolico, e "Don't get mad get even" non fa altro che confermare quanto appena detto, sottolineando ulteriormente l'atmosfera british con l'intervento vocale delle Girlschool (!) scatenate sul ritornello, immediato e trascinante.
Al netto di un climax basato su alternanze armoniche e melodiche piuttosto risapute, "Strangers" si staglia maestosa sul nuovo lotto di brani, con un crescendo epico formidabile, che culmina nelle raffiche solistiche di un Joe Stump probabilmente al suo massimo storico. Non si ha mai la percezione di una chitarra prevaricante, ascoltando "Take no prisoners" per tutta la sua durata, anzi: Stump inquadra e colpisce laddove è necessario, ora con estratti tipici del repertorio baroque & roll, ora con licks sguaiati e graffianti sulla sempre ben accetta scala pentatonica.
Francamente, l'unica impressione negativa suscitata da "Take no prisoners" riguarda ahimè le tastiere di Jimmy Waldo, relegate ad un ruolo troppo marginale…

VANDENBERG
"SIN"
(Music Theories, 2023)

Il caso Adrian Vandenberg è assai più delicato. L'olandese ex-Whitesnake non ha bisogno di troppe didascalie introduttive, ma - forse - c'è ancora qualcuno che ne ignora i rispettabili inizi come solista, con all'attivo tre dischi e qualche "singolo" meritatamente entrato nel cuore e nella memoria dei cultori ("Burning heart" e "This is war", per esempio). Curiosamente, il progetto che porta il suo cognome risorge nello stesso anno del primo come-back degli Alcatrazz, con un album dal titolo non troppo originale "Vandenberg 2020".
A dispetto dell'hard 'n' heavy "nordeuropeo" proposto nella porzione discografica anni '80, Vandenberg si ripresentano con un look decisamente modificato, trasformati in una sorta di successori filologici dei Whitesnake, con i pro e i contro che chiunque può immaginare.

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Conviene giocarsi immediatamente la più semplice delle osservazioni riguardo al nuovo album: se sull'immaginifica copertina di "Sin" (squali volanti all'assalto di una metropoli intrisa di malinconia...) fosse stampato a lettere cubitali il logo dei Whitesnake, staremmo probabilmente parlando del materiale migliore di Coverdale e compagni dai tempi di "Slip of the tongue". Certo, "Baby you've changed" è praticamente la copia-carbone di "Is this love", e un tale momento di imbarazzo ci poteva essere risparmiato, ma tant'è. Allo stesso modo, "Walking on water" è più Whitesnake dei Gotthard degli esordi, tanto per abbozzare una proporzione che renda sufficientemente l'idea.

Adrian Vandenberg è, comunque, ancora capace di inanellare riff atletici e diteggiature tutt'altro che statiche. Per quanto mi riguarda, riascoltare un chitarrismo hard rock così elaborato e dinamico è già motivo di entusiasmo: dai botti pirotecnici di "Thunder and lightning" al titanico e sofferto finale "Out of the shadows", tutto scorre senza veri e propri colpi di scena, con picchi adrenalinici come "Burning skies" - dall'importante e grintoso refrain - , modelli abusati ma sempre gradevoli (la zeppeliniana "Sin" e la già citata "Thunder and lightning") e qualche episodio trascurabile ("House on fire" e "Hit the ground running", penosamente dozzinali).

Dispiace invece ritrovare un cantante come Mats Leven, una delle voci più riconoscibili degli anni '90, che rinuncia al suo trademark per reinventarsi wannabe di David Coverdale. Questa è la differenza sostanziale tra il nuovo peccato dei Vandenberg e l'ultimo Alcatrazz: Doogie White, non certo famoso e celebrato per il suo timbro distintivo, trasmette fiducia e credibilità nonostante l'emulazione saxoniana, mentre avrei preferito di gran lunga riascoltare la voce autentica dell'altro ex-Malmsteen (su "Facing the animal") ancora forte della propria identità. Ritroveremo forse Mats Leven tra i prossimi concorrenti del Tale e Quale Show? Spero proprio di no.

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